Sabato 2 novembre 1918
Alle 16 sei velivoli della 260ª squadriglia della Stazione idrovolanti Giuseppe Miraglia di Venezia lasciano cadere dei volantini, recanti “nel giorno di San Giusto in Trieste libera fervidi saluti fraterni fatti con animo”.
Sono guidati dal tenente di vascello Orazio Pierozzi (3 medaglie d'argento), dal tenente Uberto Bartolozzi, dal sottotenente Umberto Calvello (2 medaglie d'argento e 1 di bronzo), dal guardiamarina Ivo Ravazzoni (medaglia d'argento), dai marinai Emilio Dry e Giuseppe Pagliacci (medaglia d'argento). Quest'ultimo, contravvenendo agli ordini, discende col suo idroplano nel Porto Vecchio e alla folla festosa che lo accoglie annuncia per l'indomani mattina l'arrivo della flotta italiana. La disobbedienza gli fruttò tre mesi di detenzione.
fonte: https://www.lagrandetrieste.it/studi/trieste-1918-catalogo/cenni-storici/
Da una conferenza di Otello Cavara, riportata da "Il Cielo" dell'aprile 1919:
"Trieste era il massimo degli obbiettivi, perché all'intensità del rischio bellico aggiungeva il fascino storico. L'idea di volare sulla città per la quale in decisa parte l'Italia era scesa in guerra, determinava negli aviatori una felicissima suggestione. Su Trieste volarono apparecchi terrestri e di mare, ma soprattutto di mare, in quanto la città era un obbiettivo di prevalente carattere marittimo e dal punto di vista bellico il suo porto offriva il massimo interesse: la marina voleva sapere ogni giorno quali movimenti di navi si erano in essi effettuati. Quando infatti gli idrovolanti segnalarono la presenza nel porto nuovo della Wien e della Budapest, tutta una serie di operazioni fu intrapresa: dai bombardamenti aerei diurni e notturni al siluramento finale di Luigi Rizzo. Per volare su Pola o Trieste occorreva appartenere alle squadriglie di Venezia o di Grado. Dopo Caporetto, richiamate le squadriglie di Grado, operaro in tal senso anche quelle di Porto Corsini, ma in misura più limitata. Il supremo posto d'onore era la Stazione idrovolanti Miraglia, della quale pochissimo si parlò durante la guerra perché avvolta dal più geloso secreto militare, in quanto rappresentava il maggiore organismo dell'idro-aviazione, non solo d'Italia, ma forse di tutta l'Intesa. La Stazione Miraglia arrivò in taluni momenti a disporre persino di 100 apparecchi e di 1000 persone, di cui 100 fra piloti ed osservatori. Occupava un'isola della laguna veneta. I suoi ricoveri si alzavano ai lati di un ampio canale, assumendo l'aspetto di un grandioso cantiere. Le sue operazioni d'assieme raggiungevano proporzioni superbe: essa lanciava nel cielo in pochi minuti oltre cinquanta aerei che si disponevano immediatamente in formazioni meravigliose per ordine, esattezza, "assuccamento". Parlando della Stazione Miraglia, che fu ed è comandata dal capitano di corvetta Giovanni Roverti di Castelvero, si fa implicitamente la sintesi dell'aviazione marittima in quanto ad essa affluivano il fiore delle altre squadriglie, gli aviatori più allenati, più intraprendenti, i tipi di apparecchi più progrediti. Era l'adunata massima della volontarietà: vi partecipava solo chi si sentiva entusiasta. Appena qualcuno avvertiva in sé stanchezza, esaurimento, depressione, otteneva senza difficoltà il trasferimento, anzi il "movimento". Il brillante difetto della Miraglia era l'emulazione, l'avidità della gloria, la ricerca di missioni sempre più ardue, eppur raramente capaci di determinare ammirazione nella collettività della Stazione. Poiché parlo a un pubblico triestino mi limiterò a rievocare soltanto le missioni della "Miraglia" che ebbero per obbiettivo Trieste: mi sia però consentito di ricordare i sacrifici di esistenze prodigati durante tutta la guerra, specialmente nell'eroico novembre 1917, quando la "Miraglia" fu chiamata dalla Terza Armata a collaborare sul Piave con l'aviazione terrestre, effettuando prima al mondo le "missioni dentro terra" con idrovolanti che si spingevano fino a Treviso e, quando veniva meno loro il motore, non avevano per l'"ammaraggio" che una strada o un prato. [...]
Ma la più indimenticabile visione di Trieste fu quella dei giorni di Caporetto, quando i suoi molti nereggiavano di folla certo intenta nella muta, spasmodica visione degli incendi che rivelavano il ripiegamento italiano. Lasciammo Grado con la certezza di tornare. E il 2 novembre il sogno si realizzò. Il volo fu deciso dal COmando in Capo in seguito al messaggio recato a Venezia dai tre rappresentanti di Trieste. Partirono nel pomeriggio sei idro-caccia. Quello col motto "Ibis Redibis" era pilotato dal tenente di vascello Orazio Pierozzi; il secondo "col teschio" aveva per pilota il tenente di vascello Alberto Bortolozzo; il terzo, con il fregio di Fortunello, era pilotato dal sottotenente di vascello Umberto Calvello; il quarto era adorno del berretto gogliardico e aveva per duce il sottotenente macchinista Ivo Ravazzoni; il quinto, colore verde, portava il marinaio Emilio Dri; e il sesto, color rosso, il marinaio Giuseppe Pagliacci. Trieste da bianca divenne scura agli occhi degli aviatori. I moli si tinsero di folla. Sulla folla un vociare, un oscillare di altri colori chiari: getto di fiori, sventolio di bandiere, di fazzoletti. I sei piloti planando, col motore ridotto alla minima velocità udivano la gran voce popolare. Uno dopo l'altro gettarono i messaggi della liberazione. Nessun aereo austriaco si alzò. Gli italiani dominarono il cielo con acrobazione, evoluzioni che sollevarono acclamazioni deliranti. La folla urlava: Scendete! Scendete!. Per quanto il pilota allorché non partecipi mai alla vita terrena di cui è spettatore, tanto è... diversa la situazione di chi è al sicuro e di chi è in aria, pure la commozione di Trieste ebbe la potenza di trasfondersi nei sei aviatori, di determinare in essi una voglia pazza di scendere e finire la serata trionfalmente. Ma il compito loro era un altro, era quello di tornare subito a Venezia e dar relazione delle cose vedute. Nei quattro ufficiali la disciplina ebbe ragione sul sentimento, ma nei due marinai il sentimento, sopraffece la disciplina. Il marinaio Dri sfiorà l'acqua del porto. Pagliacci vi si fermò addirittura. Di queste sensazioni è testimone qui fra noi uno dei sei volatori, il sottotenente Ivo Ravazzoni, persecutore di "draken" austriaci, abbattitore di tre aerei crociati. Se la crisi che ha vinto il marinaio pilota ha cause patriottiche degne di alto plauso, pure il gesto dal punto di vista bellico oltre che contravvenire a rigorose disposizioni che gli altri cinque piloti avevano rispettate, poteva determinare complicazioni che fortunatamente non si produssero. Deciso l'invio immediato di una squadriglia di idrovolanti a Trieste, il comandante Roberti adunò il personale della stazione Miraglia e salutò i mirabili eventi di cui la guerra s'incoronava, rievocando coloro che più di tutto avevano dato alla vittoria, coloro che avevano dato la vita combattendo. E mi sia consentito da questa Trieste, d'inviare un saluto agli aviatori di terra e di mare i quali lo accoglieranno con particolare gratitudine sapendolo lanciato dalla città che apparve loro come il volto della storia d'Italia. Ora una nostaglia acuta, insopprimivile pervade gli aviatori della guerra; non un rimpianto per gli orrori, le barbarie delle battaglie, ma una contemplazione di ciò ch'essi moralmente furono al culmine delle battaglie stesse. Come il fante gettava dallo zaino il superfluo e persino il necessario avvicinandosi alla prima linea e si affacciava all'ignoto solo col suo fucile, con il suo proiettile in pugno, così gli aviatori della guerra gettarono giorno per giorno, volo per volo, ogni mediocrità terrena, ogni più preziosa sensibilità "di pace"; accettarono serenamente, gaiamente l'idea dell'olocausto e questa psicologia trova la sua sintesi in un nome: – Trieste – rischio massimo accettato per il massimo onore, per il massimo amore. Ora gli aviatori sono dei mutilati dell'anima: scontano il privilegio d'essere sopravissuti con questo dolcissimo male: il ricordo di ciò che furono, il ricordo delle alte vie spirituali di un tempo. Se Trieste ad ogni italiano lascia una vivida luce tricolore, agli aviatori lascia tutto uno splendore imperituro."